Ieri sera (ndr: domenica 29 gennaio) ho visto "Munich", il film di Steven Spielberg più criticato di tutta la sua produzione cinematografica. Nei giorni precedenti avevo letto sul Foglio il commento dell'editorialista Max Boot (29 dicembre 2005), quello di Rabbi Benjamin Blech sul blog Liberali per Israele e altre recensioni cinematografiche di critici italiani.
Tesi politiche e cinema, arte e ideologia, hanno sempre rappresentato un matrimonio assai difficile da combinare. Esistono film che propugnano tesi politiche veritiere e condivisibili, ma che poi risultano esteticamente brutti. Viceversa, ci sono stati film con tesi ambigue e pressoché inaccettabili, ma belli. Qualche esempio? Nel primo caso, "L'uomo di ferro" di Andrzej Wajda (1981), dedicato ai giorni di Solidarnosc e alla figura di Walesa - un mediocre dramma politico di stampo apologetico che merita il pollice verso. Nel secondo caso, "Cognome e nome: Lacombe Lucien" di Louis Malle (1974), film bellissimo ma considerato "collaborazionista" e che fa a pezzi il mito della Resistenza francese.
Ma torniamo a Monaco 1972. Il film inizia con l'agghiacciante flash back della strage degli 11 atleti israeliani sotto gli occhi di tutto il mondo. Dovremmo anche dire, nell'indifferenza di tutto il mondo e principalmente degli organizzatori dell'Olimpiade i quali si sottomisero al diktat di "show must go on". Pesanti, le responsabilità del governo tedesco. E allora che fare? Eliminare i terroristi che avevano organizzato la strage - suprema decisione che fu presa dall'allora primo ministro Golda Meir. Tenuto conto del fatto che Spielberg è democratico, pensavo di di trovarmi davanti al solito documento edulcorato e politically correct. Invece mi sono trovata davanti a un film difficile, duro, amaro, che riapre con crudezza antiche ferite. Che fa discutere. Anche esteticamente risulta controverso: Paolo Mereghetti, critico del Corriere gli affibbia due stelle (discreto) poiché asserisce che non è né un action movie né un film di riflessione e che finisce con lo scontentare entrambe le aspettative del pubblico; mentre Maurizio Porro dello stesso giornale, gliene dà quattro: ("Monaco è un bellissimo film, con qualche cadenza sbagliata e con un finale angoscioso e disarmante"). Pensavo di trovarmi davanti alla solita morale bipartisan dove ce n'è per l'asino e per chi lo bastona, ma neppure per un istante i cinque agenti del Mossad vengono dipinti solo come crudeli sanguinari o semplici belve assetate di sangue. Giustizieri più che assassini, il cui difficle compito è garantire la sicurezza del piccolo stato di Israele. Mentre invece, è visibile a tutti la furia omicida e indiscriminata del commando di feddayn incappucciati che fa irruzione nel dormitorio degli ignari atleti israeliani. E' visibile a tutti la cinica quanto determinata volontà di voler ottenere da parte terrorista, un impatto mediatico simile a quello che anni più tardi otterrà Bin Laden con gli attacchi e il crollo delle Twin Towers. Così come sono palesi, da parte dei cinque agenti del Mossad i metodi delle uccisioni "mirate" e "selettive" nei confronti dei pianificatori della strage di Monaco, uccisioni che non devono coinvolgere altre vittime innocenti (bella la scena in cui il protagonista Avner corre come un pazzo per bloccare l'attentato dinamitardo contro un terrorista arabo, allorché nel suo studio si aggira la sua bambina di 10 anni). Avner che non viene mai dipinto come un terminator programmato per uccidere, ma che ha dei sentimenti, dei pensieri, delle idee e che vive l'umano conflitto interiore tra il volere una vita da uomo "normale" accanto sua moglie e sua figlia appena nata, e il dover essere sempre sbattuto di qua e di là in quel "nessun dove" tipico degli agenti segreti, uomini senza nome e senza volto. Londra, Parigi, Roma, NY, è sempre la vetrina di un negozio di arredamenti per cucine attirarlo con nostalgia ("Home" di ET). Ma qui, il telefono ("Phone", sempre di ET) è una mina che può esplodere. Come può esplodere il letto col materasso in cui è nascosto un detonatore. Alieno a sé stesso (quindi ancora una volta ET), Avner risulta essere pure nella difficile e criticata scena dell'amplesso con la moglie nella quale scorrono velocemente nella sua mente ormai turbata, i flash-back del suo viaggio nel cuore delle tenebre e dell'orrore. Eros non può dunque sfuggire a Thanatos. Ecco che allora Avner entra in una fase insonne e paranoica nella quale dubita di tutti e di tutto mettendo addirittura a rischio il suo legame con Israele dal quale si allontana. Ed è proprio questo finale ad aver scatenato (con buone e comprensibili ragioni) i risentimenti di tanta parte dell'opinione pubblica ebraica (americana e israeliana). Concordo, tuttavia, con il commento di Angelo Pezzana su Libero di 29/1: "Munich" è una riflessione sulla moralità ebraica che vale comunque la pena di vedere, "per capire le ragioni degli uni e degli altri e scegliere da che parte stare". Il film si chiude con Avner che si incammina nel paesaggio urbano americano dove pensa di mettere in salvo la sua famiglia e sé stesso, rifacendosi una vita. Nello sfondo in lontananza, i grattacieli e le due Torri di Mannhattan ancora in piedi con un finale ambiguamente aperto: sarà davvero al sicuro? E sarà questa la nuova frontiera del terrorismo globalizzato di matrice islamica? Il mio voto è tre stelle ***.